Negli ultimi anni, il fenomeno del delisting sta diventando una questione sempre più rilevante nel panorama della Borsa Italiana.
Per delisting si intende la rimozione di una società dalla quotazione in borsa, evento che può essere volontario o forzato. Questo processo ha suscitato dibattiti e preoccupazioni per le sue conseguenze sull’economia italiana e sugli investitori.

Le cause del delisting

Le ragioni che spingono un’azienda a uscire dalla Borsa Italiana possono essere molteplici e spesso complesse. Una delle motivazioni principali è legata ai costi elevati legati al mantenimento della quotazione. Le aziende quotate devono rispettare rigidi obblighi di trasparenza e compliance, che comportano spese significative per le piccole e medie imprese. Per queste realtà, i costi amministrativi, legali e di auditing spesso superano i benefici che derivano dalla raccolta di capitali sul mercato azionario. Di conseguenza, molte aziende preferiscono ritirarsi dalla borsa, riducendo le spese e guadagnando maggiore flessibilità gestionale.

Un altro fattore che influisce sul delisting è il cambiamento del contesto macroeconomico e regolamentare. Negli ultimi anni, il mercato azionario italiano ha visto una crescente competizione da parte di mercati più internazionali e liberalizzati. La Borsa Italiana, con le sue regole severe e la struttura frammentata del mercato finanziario italiano, non è sempre in grado di competere con altre piazze più flessibili e appetibili. Questo spinge molte aziende a cercare quotazioni estere o a delistare per concentrarsi su mercati privati.

Infine, il delisting può essere la conseguenza di operazioni finanziarie complesse come fusioni, acquisizioni o buyout. Quando una società viene acquistata da un investitore privato o da un’altra azienda, spesso la nuova proprietà decide di ritirarla dalla borsa per riorganizzare le sue strutture e strategie aziendali.

Conseguenze del delisting

Il delisting ha ripercussioni significative sia sugli investitori che sull’economia nazionale. Per gli investitori retail, ovvero i piccoli risparmiatori, il delisting può rappresentare una perdita di opportunità di guadagno o un rischio elevato. Una volta che una società viene ritirata dalla borsa, le azioni diventano meno liquide, il che significa che è più difficile vendere o comprare tali titoli. Questo riduce la capacità degli investitori di realizzare guadagni rapidi e rende il mercato azionario meno accessibile.

Inoltre, il fenomeno del delisting può essere visto come un indicatore di debolezza del mercato azionario italiano. Un calo significativo del numero di aziende quotate può ridurre la fiducia degli investitori internazionali nel sistema finanziario italiano. Le società che scelgono di ritirarsi dal mercato pubblico possono trasmettere un messaggio negativo, segnalando una scarsa competitività o un contesto economico sfavorevole.

Un altro effetto negativo del delisting è la diminuzione della trasparenza. Le aziende quotate devono rispettare obblighi di rendicontazione e trasparenza che permettono agli investitori di valutare lo stato di salute finanziaria delle imprese. Quando una società delista, queste informazioni diventano meno disponibili, rendendo più difficile per gli investitori valutare l’andamento delle attività. Questo comporta un rischio aggiuntivo per gli investitori, che non hanno più accesso a informazioni aggiornate e affidabili.

L’impatto sull’economia italiana

Il fenomeno del delisting non è solo un problema per gli investitori, ma ha anche impatti più ampi sull’economia italiana. La Borsa Italiana rappresenta una fonte importante di capitali per le imprese, specialmente per quelle di piccole e medie dimensioni. Quando le aziende decidono di ritirarsi dal mercato azionario, si riduce la capacità del mercato di attrarre nuovi investimenti e capitali.

Il calo del numero di società quotate sulla Borsa Italiana influisce anche sulla capacità del paese di attrarre investitori stranieri. Una borsa meno dinamica e meno attraente potrebbe essere vista come un segnale di un’economia stagnante o meno aperta all’innovazione. Questo rischia di ridurre la competitività del sistema finanziario italiano rispetto ad altri mercati europei o globali.

Infine, il delisting può avere un impatto negativo sull’occupazione. Le aziende che delistano spesso cercano di ristrutturare e ridurre i costi, il che può tradursi in tagli al personale. Inoltre, la riduzione della trasparenza e l’accesso limitato ai capitali pubblici possono rallentare la crescita aziendale, con effetti negativi sull’occupazione a lungo termine.

Dati sul delisting in Italia

Negli ultimi anni, il fenomeno del delisting in Italia ha visto un incremento significativo. Secondo i dati pubblicati dalla Borsa Italiana, nel 2022, il numero di società quotate sul mercato principale (MTA) è sceso da 246 a 230 rispetto all’anno precedente. Si è trattato di uno dei numeri più bassi degli ultimi dieci anni. Questo trend non è limitato all’anno in questione, ma riflette un processo iniziato già da tempo: nel 2010, per esempio, le aziende quotate erano oltre 290, evidenziando un calo costante nel numero di società sul mercato.

Nel solo 2022, ben 22 società hanno effettuato operazioni di delisting, molte delle quali attraverso processi di fusione o acquisizione da parte di altre società o investitori privati. Tra queste, spiccano nomi importanti come Yoox Net-A-Porter, Cerved Group e Guala Closures, aziende che hanno deciso di lasciare la Borsa Italiana per concentrarsi su strategie gestionali più flessibili o per diventare completamente private a seguito di acquisizioni.

Un altro dato rilevante riguarda il rapporto tra nuove quotazioni (IPO) e delisting. Nel 2021, sono state registrate solo 8 nuove quotazioni, a fronte di 19 delisting. Questo saldo negativo riflette un problema di fondo: le aziende italiane, soprattutto le piccole e medie imprese, trovano sempre più difficile attrarre investimenti tramite la borsa, preferendo operare in mercati privati o cercare finanziamenti alternativi. Nel 2022, la tendenza è stata simile: 9 IPO contro 22 delisting.

Secondo uno studio di Mediobanca, tra il 2008 e il 2022, il 52% dei delisting in Italia è stato motivato da acquisizioni o operazioni di fusione, mentre il 25% è stato determinato dalla volontà delle aziende di uscire dal mercato azionario per motivi di costi e gestione. Solo una minoranza di delisting è stata causata da situazioni di crisi aziendale o insolvenza.

Questi dati evidenziano un problema strutturale del mercato azionario italiano. Se da un lato le aziende trovano vantaggioso ritirarsi dalla borsa per ridurre i costi e ottenere maggiore libertà decisionale, dall’altro il mercato azionario perde attrattiva, limitando la capacità di attrarre capitali e investitori, sia nazionali che internazionali.

Delisting nel 2024

Nel corso del 2024, diverse aziende hanno scelto di lasciare la Borsa Italiana, seguendo un trend di delisting in crescita. Tra le più rilevanti si segnalano:

  1. CNH Industrial ha avviato il delisting a inizio anno (2 gennaio 2024), decidendo di concentrarsi sulla sola quotazione alla Borsa di New York, per via dei maggiori volumi di scambio e della semplificazione dei costi amministrativi.
  2. Tod’s, l’azienda di moda italiana, ha completato il delisting il 7 giugno 2024, a seguito dell’OPA totalitaria lanciata dal fondo L-Catterton, che ha acquisito il 96,9% delle azioni a un prezzo di 43 euro per azione.
  3. Saras, la società del settore petrolifero, ha annunciato l’uscita dal listino a settembre 2024, dopo l’acquisizione da parte del gruppo Vitol, a seguito di un’OPA a 1,75 euro per azione.
  4. Openjobmetis e Saes Getters sono altre due aziende che hanno lasciato Piazza Affari nel corso del 2024, entrambe a seguito di OPA che hanno permesso il ritiro delle azioni dal mercato.

Nel complesso, nel 2024 sono state registrate 22 operazioni di delisting, con una perdita complessiva di circa 28 miliardi di euro di capitalizzazione di mercato. Questo trend è visto come parte di una difficoltà più ampia di attrarre e mantenere aziende quotate sul mercato italiano​