Per la rubrica Thursday Talk, ti proponiamo l’intervista a Renato Vannucci, Presidente della Commissione Venture Capital AIFI e Co-Fondatore e Vice Presidente di Vertis SGR.

 

Le imprese alla ricerca di capitali di rischio hanno, spesso, un’idea non del tutto corretta del venture capitalist. Può spiegarci cosa fa esattamente un investitore in venture capital e cosa cerca in un’azienda?

La risposta è molto semplice ed è già esplicitata nella domanda: investire capitali per trarne profitto. L’obiettivo è quello di finanziare progetti con alto potenziale di crescita. Un investitore di venture capital acquisisce una partecipazione in quote societarie dell’impresa target attraverso un aumento di capitale o altri strumenti assimilabili per dotare la società dei mezzi necessari per lo sviluppo del progetto. Il fondo però ha una scadenza e quindi, entro tale data, normalmente non inferiore a 6/7 anni, deve dismettere la propria partecipazione. Ciò implica che le aziende che cerchiamo devono poter creare valore con le risorse disponibili e nel tempo richiesto.

 

Per capirci: il venture capital è territorio esclusivo di fintech, aero-spaziale e nanotecnologie o anche un’azienda “tradizionale” può fare breccia nel cuore di un venture capitalist? L’inventore del trolley in Italia avrebbe trovato i capitali per sviluppare la propria attività?

Il venture capitalist per raggiungere gli obiettivi che ho indicato poco fa, ricerca l’innovazione. È evidente che nei settori da lei indicati è più facile individuarla e quindi può sembrare che quello sia il territorio esclusivo di interesse ma non esiste alcuna preclusione verso altri settori anche più tradizionali. Anche l’inventore del trolley avrebbe quindi trovato i capitali in Italia.

 

Spesso si ritiene che il business plan sia al centro di tutto. Ma è sufficiente presentare un bel progetto, magari col supporto di consulenti esterni, per poter fare centro? Oppure un venture capitalist valuta altre variabili? Vale di più il progetto o il team? 

Molto dipende dalla fase di sviluppo in cui si trova il progetto. Se ci si trova nella prima fase di idea/ricerca è il team che predomina nella selezione. Volendo fare un paragone calzante in questo particolare momento, direi che il progetto è come un virus che muta nel tempo. Quindi il team vale di più. Diversamente in una fase di sviluppo più avanzata il team resta centrale ma non è più predominante. Il business plan non è il centro di tutto ma è uno strumento necessario per il venture capitalist per comprendere il livello di maturità e competenza manageriale del team. Per tale motivo che ben venga il supporto di consulenti esterni per la prima redazione purché sia un momento di formazione per il team al fine di comprendere tutti gli aspetti collegati allo sviluppo economico del proprio progetto.

Quindi si al supporto ma no alla redazione autonoma dei soli consulenti.

 

Quindi, meglio l’imprenditore geniale ma solitario o un team di manager esperti con un’idea buona ma non eccezionale? 

Le direi che l’optimum è un team con un leader geniale. Non esiste una risposta puntuale a questa domanda perché dipende anche dalla tipologia del progetto. Se ad esempio analizziamo un progetto in ambito pharma che non prevede, come usuale, lo sviluppo interno del prodotto per il mercato, potrebbe essere sufficiente la presenza del solo ricercatore geniale; ma se invece analizziamo un progetto con sbocco diretto sul mercato allora è necessaria la presenza di un team multidisciplinare e non solo del genio.

 

Quale deve essere la dimensione minima di un’azienda per poter essere appetibile per un venture capitalist? Le aziende in fase seed o start up fanno bene a presentarsi a un investitore come lei o dovrebbero rivolgersi ad altri soggetti? 

Non c’è una dimensione minima e se le posso rispondere personalmente le dico che attualmente Vertis gestisce due fondi che investono dal pre-seed, (inteso come progetti di ricerca ancora in fase embrionale e pre-prototipale), allo scale up (inteso come aziende già sul mercato) e pertanto in tutte le fasi di vita.

 

Se le speranze di crescita fossero deluse, come si comporta il venture capitalist? Abbandona la nave? Prende il comando?

L’abbandono della nave è all’ordine del giorno. Molti progetti ahimè vengono abbandonati perché non raggiungono gli obiettivi attesi. Se non fosse così vuol dire che non stiamo investendo in innovazione dove, come ovvio, non è possibile il successo di tutti. Se per prendere il comando intende che qualcuno dei componenti del team di gestione del fondo cominci a gestire l’azienda è una possibilità da escludere a priori. Se invece si riferisce alla possibilità di incidere per richiedere un cambio di management è una possibilità non remota ma solo nel caso in cui si riesca ad individuare il manager adatto allo sviluppo dello specifico progetto. Quindi, da non confondere con cambi manageriali usuali, tipici nelle logiche dei gruppi (che non siamo) e nell’interesse esclusivo della partecipata e di tutti i soci compresi i fondatori.

 

Molti imprenditori temono il mito (negativo) dei covenants, vedendo nelle clausole di salvaguardia uno strumento per sfilare il controllo dell’azienda all’imprenditore. Siete davvero così “cattivi”?

Se lo fossimo saremmo dei masochisti. Nel venture capital non esistono covenants stringenti, come nel mercato dei finanziamenti, ed essendo le partecipate delle aziende ancora in fase di crescita elevata e non ancora consolidate non sarebbero in grado di sostenere il contraccolpo derivante dalla litigiosità dei manager e dei soci. Inoltre, tenga presente che i venture capitalist che operano attraverso lo strumento dei fondi, svolgono questa attività per professione e quindi hanno in alta considerazione l’aspetto reputazionale connesso al proprio operato.

 

Il venture capital, in Italia, non ha avuto finora il successo registrato in altri paesi. A cosa è addebitabile questo ritardo nella maturità del nostro mercato?

Il ritardo è addebitabile alla carenza dei capitali disponibili per la raccolta dei fondi. Pensi ad esempio che solo nell’ultimo anno finalmente i fondi pensione e le casse di previdenza, che sono nel resto del mondo i principali finanziatori dell’economia reale, si stanno affacciando concretamente a questo mercato. Le ricordo che il primo boost di sistema per lo sviluppo del venture capital in Italia c’è stato nel 2009 grazie all’avvio di tre fondi di investimento con il supporto economico dello Stato attraverso il Fondo HT.  Il Fondo HT fu varato dopo una gestazione soffertissima nel 2005. Il bando di gara era partito nel luglio del 2007.

 

Il Fintech sembra poter mettere in seria difficoltà i tradizionali intermediari creditizi, mandando in crisi il vecchio modello della banca-agenzia territoriale. Potrebbe succedere la stessa cosa con il venture capital? Il fund raising digitale potrebbe soppiantare la tradizionale figura dell’investitore in capitale di rischio?

In termini esclusivamente di raccolta di capitali sicuramente può succedere e sta già succedendo. Ma l’investitore in capitale di rischio non porta solo capitali come invece un intermediario finanziario. Un investitore è un partner attivo della partecipata. La supporta in tutta la fase di crescita grazie al know how multidisciplinare del proprio team di gestione. Dalla “semplice” governance alla più complessa struttura organizzativa, dal problem solving (basato sull’esperienza maturata nelle diverse partecipate gestite) alla relazione di contatti internazionali, ecc.

 

Vuoi approfondire il tema del venture capital? Mandaci le tue domande scrivendo a comunicazione@innexta.it.

 

Intervista del 5 marzo 2020